Parola ai writers | Quando un muro racconta la storia
da “il Manifesto” del 6 settembre 2009
Urban Code a Global Beach. Ovvero il mondo dei writers sbarca al Lido.
In realtà i writers veneziani hanno lasciato i loro segni sulle strutture di Global Beach ma ieri sera hanno affidato a un video e alle parole il racconto della loro esperienza. Il video è quello dell’americano Jon Reiss, Bomb It!. Le parole sono quelle dei writers veneziani stessi, racchiuse in un prezioso libro, «Headlines. In evidenza dal basso» che è un capitolo della variegata storia del graffitismo nella città lagunare. «Il gruppo Urban Code (www.urban-code.it, ndr) è nato contemporaneamente all’occupazione ai magazzini del Sale. – dice Rocco Cacciari, uno dei giovani writers – Ci accomunava tra le altre cose il ragionare su come intervenire sulla città». Urban Code rovescia in qualche modo anche la percezione che vuole i writers artisti ‘individualisti’. Certo ognuno dei writer ha i propri segni e agisce anche da solo, ma l’esperienza veneziana dimostra che c’è una dimensione collettiva molto forte tra i giovani writers. «Ci ha spinto a unirci – dice ancora Rocco – anche un fatto molto concreto. E cioè la pesante operazione di polizia a carico dei writers veneziani avviata ormai tre anni fa e che ha portato alla perquisizione di dodici abitazioni e a una indagine capillare per danneggiamento aggravato a carico nostro. Ancora non c’è stata la sentenza».
Questa azione repressiva ha spinto i writers a unirsi e a mettere in mostra i loro lavori. «Se siamo i colpevoli – dice ancora Rocco – facciamo vedere le prove. Abbiamo giocato sulla parola dock, che è sì il porto ma è anche il banco degli imputati in tribunale». E i ‘colpevoli’ hanno spiegato le loro ragioni. «Colpevoli di cosa? La provocazione sta tutta qui – hanno scritto i writers veneziani – nel mondo contemporaneo il fare graffiti, il writing vive sotto la continua minaccia di una repressione sempre più incalzante ed esplicita. Questa direzione politica verso la tolleranza zero, questo continuo inasprimento delle retoriche di sicurezza, è secondo noi la reale anti cultura da combattere. Sotto lo spauracchio del criminale – concludono i writers – quindi del writer, dell’ultras, o dell’immigrato clandestino si accetta di vivere osservati continuamente da occhi digitali di telecamere puntate su luoghi pubblici, angoli di città dove tutto è raccolto, tutto è registrato, dove la spontaneità è talvolta punita».
Spontaneità è certo l’attributo che più si addice ai writers. «Certo – dice Rocco – il graffito parte da una spontaneità ma la provocazione, non sappiamo e non ci interessa nemmeno sapere se è arte, la provocazione sta nel fatto che ci interessa raccontare e dire che questa è una forma di attivismo, artistico, che mira a una ribellione rispetto alla omologazione degli orizzonti, dei segni urbani nella metropoli. E’ una ribellione che porta anche a gesti ‘illegali’, come l’attacco alla superficie dei treni, che sono anche un simbolo della città che funziona del modulo ripetuto. Il graffito è simbolo anche di una rottura di segni imposti sulla città. E la rottura dell’orizzonte dei segni evidenzia le contraddizioni della metropoli». Il libro «Headlines. In evidenza dal basso», raccoglie alcuni episodi della storia dei writers veneziani. Promosso dal Comune di Venezia «che – come scrive l’assessora alle politiche giovanili e pace, Luana Zanella – riconosce anche il writing come espressione della creatività e cultura giovanile che nasce dal bisogno di raccontarsi e manifestarsi». I writers, come si vede nelle foto raccolte nel libro, hanno raccontato in questi anni sulle aree dismesse di Porto Marghera, sull’architettura industriale in disuso rendendo questi scheletri vuoti nuovamente vivi, rianimandoli, usandoli. Dal fuori, gli esterni, le periferie, al dentro, soprattutto lo spazio della casa. Il fuori e il dentro sono raccontati in un progetto che trova spazio nel libro e che è rappresentato da panoramiche a 360°, immagini panottiche dove niente dello spazio viene censurato da un’inquadratura, spazi reali, in tre dimensioni riflettono le persone che li vivono, trasportandone i sentimenti.
Il progetto è firmato Ryts Monet e Luca Vascon. Una terza parte del libro è dedicata a un progetto estremamente interessato legato all’identità. I writers infatti hanno lavorato con i cittadini stranieri, spesso senza permesso di soggiorno, che hanno frequentato i corsi di italiano al centro sociale Rivolta di Marghera. Il risultato di questi incontri e scambi è «Unconventional Portrait». Il punto di partenza era cercare modi «per attuare una efficace critica delle retoriche della sicurezza». Perché «l’identità a volte è negata e per riprendersela occorre trovarne un’altra e spingerla dal basso il più possibile».
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