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Pratiche dei luoghi comuni

Rebiennale comunicati

Gli spazi sociali veneziani hanno organizzato performance e seminari critici verso quelli ufficiali della kermesse sulla laguna

di Marco Baravalle

Nei prossimi giorni Venezia sarà teatro di alcuni «grandi eventi culturali» per eccellenza: dall’inaugurazione della Biennale d’Architettura alla Mostra internazionale del Cinema.

Nel tempo della crisi e dell’austerity, essi diventano la vetrina della ricchezza accumulata e goduta da pochi, il palcoscenico del profitto capitalistico che si è fatto rendita parassitaria sulla cooperazione sociale: dal business dell’entertainment e della produzione d’immaginario per il suo consumo, fino al saccheggio del territorio attraverso la speculazione immobiliare, rispetto alla quale l’architettura contemporanea gioca lo stesso ruolo, nell’organizzazione della metropoli neoliberista come mostruoso dispositivo di cattura del valore e del controllo sociale, svolto dall’embellissement stratégique (ma spesso di potrebbe benissimo parlare di abrutissement tactique) del barone Haussmann nella Parigi della seconda metà del XIX secolo. È questa la vetrina che gli spazi sociali occupati di Venezia vogliono incrinare.

Dal «Ground» al «Battle Ground», dunque. Dal campo fintamente neutro al reale campo di battaglia; solo una parola in più aggiunta al titolo ufficiale della Biennale di Architettura 2012, un titolo che furbescamente occhieggia alla discussione così di moda sul «comune» e i «beni comuni». Apparentemente una piccola modifica, in verità una fondamentale distinzione. «Occupy Biennale. Common battle ground» è infatti il logo scelto dagli spazi sociali veneziani per «attraversare» le giornate dell’inaugurazione dei «grandi eventi veneziani».

Due centri sociali, il Laboratorio Morion, il Rivolta e uno spazio culturale indipendente, S.a.L.E.-Docks, organizzano workshop, seminari, parate e annunciano «azioni a sorpresa». Il titolo è un evidente détournement di quello voluto dall’archistar David Chipperfield per la kermesse di architettura: «Common Ground».

Gli organizzatori di queste iniziative ritengono infatti non esistano commons fuori dai conflitti sociali per la loro messa in comune. Non esistono beni comuni, e tanto meno un comune, definito a priori in termini giuridici o presupposto come asettica e naturale dimensione condivisa. Esiste il terreno di una permanente contesa, il campo dei conflitti sociali per strappare la produzione e la decisione su ciò che è comune allo sfruttamento e al comando del capitale. Vale per l’acqua, l’ambiente e per la conoscenza, ma anche per lo spazio e per la metropoli. I protagonisti di questa messa in comune possono essere chiamati con molti nomi: comunità in lotta, general intellect, movimenti. Quale che sia il loro nome, essi resistono alla messa a profitto dei beni materiali e immateriali e costituiscono forme di vita e modalità di gestione alternative. Dalle città alle valli di montagna si scontrano con i processi di gentrificazione, la speculazione immobiliare, grandi opere inutili e devastanti, la finanziarizzazione dello spazio urbano, la valorizzazione parassitaria delle esternalità sociali e così via. Costruiscono, nella tensione quotidiana alla pratica del comune, la necessaria possibilità di una radicale alternativa di sistema.
Ora i «beni comuni», dopo essere stati adottati quale slogan da politicanti di ogni colore, dalla pubblicità e dalla Chiesa, vengono finalmente sdoganati anche in architettura. Eppure non possiamo dimenticare che questa disciplina, negli ultimi tre lustri, è stata caratterizzata da un progressivo irretimento del general intellect all’interno di forme di produzione dominate da poche firme di architetti superstar, sempre meno l’architettura si è fatta carico di una reinvenzione pubblica della città e sempre più ha assunto il compito di progettare uno spazio metropolitano dominato dalla presenza dei grandi brand e dei fondi d’investimento come committenti principali. In questo processo, tra l’altro, l’architetto è spesso «complice culturale» di enormi operazioni di speculazione immobiliare che ben poco hanno a che vedere con la città quale bene comune. All’opposto l’ultimo anno ha segnato l’emersione della rete dei teatri occupati e di quegli spazi, come il Valle e il Cinema Palazzo di Roma, il S.a.L.E di Venezia e Macao di Milano., che sono nati attorno alla questione culturale.
Questi luoghi hanno evidenziato l’urgenza di un nuovo paradigma di progettazione e di gestione comune dello spazio, dimostrando che è possibile realizzare un common ground solo attraverso la sua conquista, attraverso una battaglia quotidiana contro il parassitismo del capitale che, con la privatizzazione della città, trasforma la rendita immobiliare in una delle sue principali fonti di profitto e contro la governance pubblica, quando essa lavori per favorire tale logica di rapina. Questo processo è dunque un processo di movimento, che parte dai lavoratori della cultura, ma che è in dialogo con tutti gli altri movimenti sui beni comuni e con le lotte sociali in atto.
Le giornate del 27, 28 e 29 agosto saranno quindi caratterizzate da questa tensione, dalla necessità di sottolineare quanto la cultura, in tempo di crisi, non possa limitarsi alla produzione di grandi eventi che ostentano una ricchezza sempre più concentrata nelle mani di pochi. Saranno giornate di riflessione e di lotta in cui verrà nuovamente messo al centro il tema del reddito e del diritto ad una gestione comune dello spazio metropolitano.

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