NEGLI ATELIER DOVE NASCE IL METISSAGE
il Manifesto 16.06.2009
Alla Biennale di Venezia, intitolata «Fare mondi», sono andati in onda pianeti diversi, come quelli dedicati a Internet, al Kurdistan che non c’è e al cantiere Morion
La cosa più curiosa è che l’inventore del Kopimi way of life, ovvero copiate e riproducete, è un giovane kurdo iracheno che vive in Svezia. Ma poi in fondo no, non è così curioso. È il mondo in movimento. Il pirata svedese biondo che riprende seduto sui kilim di «Planet Kurdistan» (padiglione kurdo, evento collaterale della Biennale) è entusiasta: registra tutto per il suo amico e compagno pirata kurdo che è rimasto in Svezia.
I kurdi, popolo senza stato, sono ovunque. Il Kurdistan è ovunque. Questo è un po’ il concetto che ha informato il processo di costruzione di «Planet K». Progetto multi-tutto. Architetti francesi, tedeschi e italiani, artisti kurdi, amici di tutto il mondo, uniti nella realizzazione di un nuovo pianeta, K appunto. Dove il legno utilizzato è quello del padiglione serbo della scorsa Biennale architettura. Un intreccio incredibile che ha portato insieme in luoghi della città diversi i pirati svedesi, i magazzini del Sale, il centro sociale Morion e, naturalmente, il Kurdistan. Un percorso alternativo in questa Biennale guidata da David Birnbaum e opportunamente intitolata Making Worlds. E sono in tanti, fuori dai Giardini soprattutto, a costruirsi nuovi mondi.
Per il Kurdistan (ospitato nella chiesa di San Leonardo a Cannaregio, a due passi dalla stazione) l’idea è quella di un laboratorio in continuo divenire. Per i pirati è l’ambasciata, per il Morion è semplicemente «fate mondi».
Che tradotto ha voluto dire un workshop che in cinque giorni è riuscito a ricostruire da zero uno spazio-tempo dentro/fuori rispetto alla Biennale… una sperimentazione che ha ridato vita al Laboratorio occupato. Partenza il 1 giugno con un foglio di carta e una matita, a fianco il computer di Nicolas (Exyzt). Prima si sono immaginate le docce… nel cortiletto interno, si sono messe insieme le travi austriache della Kanana School con cantinelle della Danimarca, realizzati sedili con i pneumatici di Millegomme, ed ecco un luogo che somiglia molto alle terme degli antichi romani.
Seconda fase: prendere le misure dei letti serbi e decidere il numero di posti letto in base all’uso dello spazio da trasformare velocemente secondo le esigenze poste dal profilo del cantiere. Si tratta di una piattaforma di progettazione e di ospitalità connessa ai workshop con gli studenti, atelier aperti agli abitanti e cittadini veneziani del quartiere. Il cantiere socializzato ha determinato le scelta delle forme abitative. Mentre si ricostruiva e riciclava l’impalcatura data dalla Cina – la scala per i piani dove possono stoccare materiali recuperati e letti per dormire – si pensava allo spazio della rete: che tipo di comunicazione si voleva attivare, con chi interagire e come «informare» in autonomia di mezzi e risorse. Si passava dalle tastiere del computer al martello, dai codici alle viti, musica orchestrale e sega circolare si sono amalgamate ai rumori del quartiere e alle voci dei passanti e delle decine di visitatori, turisti persi, curatori e giornalisti, o semplicemente curiosi attirati dall’attività all’interno e all’esterno del Morion, dal movimento…
A fine giornata, cena collettiva con chiunque abbia contribuito o partecipato con le proprie mani, idee, aiuto. Dai pirati agli operai specializzati in effetti speciali, ogni lingua è stata utile per risolvere problemi idraulici, trasportare materiali, cercare soluzioni funzionali per la quotidianità del cantiere, trovare strumenti e attrezzi, garantire una presenza, fare azioni per rivendicare reddito in Biennale e nei musei coordinandosi con l’Onda e gli artisti-informatici di Embassy of Piracy che sono passati dal software del Padiglione Internet al Sale all’hardware del cantiere Morion con estrema disinvoltura. A fine workshop, la cucina del cantiere… un barbecue nella carriola con gli avanzi di legno, per griglia un lato di carrello della spesa, pasto servito sugli utili e pratici tavoli brasiliani, e festa.
Chi e cosa resta della Biennale a Venezia, dopo l’affollato vernissage?
Il nuovo centro sociale Morion, con wi-fi accessibile e cantiere in live-streaming dal secondo giorno alla fine dei lavori che sono sempre in corso. Il passa-parola e lo streaming hanno garantito la circolazione di persone e la comunicazione con tutti, tanti. Il Kurdistan inteso come un insieme di suggestioni, persone, vite. Un percorso ancora tutto da scrivere: un lavoro di cui il padiglione di San Leonardo è solo l’inizio.
Perché, come si è scritto nel flyer di presentazione del workshop al Morion, «Venezia è un’isola diventata arcipelago, è formata da tanti mondi che stiamo attraversando e trasformando come la Biennale e l’università. I cicli di autoformazione Iuav nati con Commons Beyond Building a settembre 2008, seguiti da Make Worlds Before Building di Anomalie urbane, hanno prodotto una riqualificazione condivisa degli spazi e dei saperi in questa città e nei quartieri. Questo contributo e lavoro si regge su un dispositivo di autofinanziamento socializzato, una gestione autodeterminata dalle risorse vive che rivendicano oltre alle case e gli spazi, la riappropriazione di questo valore aggiunto, valore che qui in particolare si vende a caro prezzo economico e di condizioni di vita, come il diritto di abitare e di poter studiare in città».
I pirati invece sono sbarcati alla Biennale di Venezia con il Give me back my money, day! In cinquanta hanno rivendicato l’accesso gratuito. Al centro della critica il meccanismo di sfruttamento attuato dalla fabbrica della cultura. Troppi hanno dimenticato che dietro ai grandi eventi ospitati a Venezia, si cela un vero e proprio meccanismo di sfruttamento delle vite e delle produzioni culturali. Sfruttamento a mezzo di lavoro precario e interinale, lavoro gratuito degli studenti sotto forma di stage e tirocini, lavoro non garantito nelle cooperative. «Con questa iniziativa si vuole contaminare con il virus della sovversione il grande palcoscenico dell’arte su cui atterrano le astronavi dei collezionisti e del capitale finanziario responsabili della crisi economica globale», hanno commentato durante il corteo che ha sfilato per più di un’ora tra i padiglioni della 53° edizione della Biennale.
Proprio in questi giorni è stato presentato un nuovo padiglione: è intitolato a Internet. Visto il tema della mostra di quest’anno, Fare mondi, è logico che il web venga rappresentato, per la prima volta, con un proprio padiglione. L’ambasciata dei Pirati è stata ospitata al Sale. L’idea della Embassy of Piracy ha preso forma quando The Pirate Bay è stata invitata alla Biennale di Venezia nel contesto dell’Internet Pavilion. «Come ambasciata, – hanno detto i corsari – il nostro compito è quello di rappresentare la libertà di Internet, dei suoi pirati e di promuovere lo stile di vita Kopimi».
Dalla Biennale d’arte i pirati sono poi sbarcati a Palazzo Ducale. Luogo simbolo della battaglia che in questi mesi ha visto protagonisti i lavoratori dei musei civici. La rete dei musei è infatti passata alla Fondazione Musei Civici Veneziani, che ha appaltato a diverse cooperative, le quali hanno scelto l’equazione: meno turisti, uguale, riduzione dello stipendio. Ovviamente è da mesi che i lavoratori dei musei civici si stanno battendo per rompere questo meccanismo di sfruttamento e precarietà del salario.
Non poteva mancare l’«arrembaggio» a Punta alla Dogana, il nuovo polo museale d’arte contemporanea di proprietà di François Pinault, già proprietario di Palazzo Grassi dove quest’inverno gli studenti che hanno animato l’Onda veneziana erano riusciti ad entrare gratuitamente, rivendicando il libero accesso alla cultura.
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